Viaggio tra le macerie della coscenza

itali1Napoli – Non ci si può non accorgere, nell’assistere aItalietta– lo spettacolo, oniroide e tremendo pur nella sua grottesca sostanza (presentato, nel corso della rassegna
Maggio dei nuovi teatri, dall’Anonima Romanzi al Teatro Elicantropo di Napoli), scritto e diretto da Carlo Cerciello – dell’incredibile analogia che l’eteroclita e caleidoscopica struttura visionaria della scena (lo spettacolo si articola in cinque quadri o visioni, appunto) instaura, seppur inconsapevolmente, con la deflagrante poesia allucinatoria di Quattro Zoas, il poema in cui William Blake prefigurava tutti gli orrori di cui si sarebbe macchiata la mano dell’uomo, e la distruzione della “Bellezza” che le fabbriche – e quindi l’incipiente tecnologia – avrebbero generato. La portata profetica di quelle parole/immagini è sconcertante: <<E tutte le arti della vita mutarono in arti di morte […] Furono inventate ruote complicate. Ruota senza ruota per sconcertare la gioventù, per legare a fatiche di giorno e di notte le folle in eterno […] chi deve spendere i giorni di saggezza in miseria contristata per ottenere uno scarso pasto […] I palazzi nitidi si ammantano di orrore scuro e silenzioso, nascondendo i loro libri e i loro quadri nei covi sottoterra. Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà […] I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue? […] La tigre feroce deride la forma umana, il leone dileggia e vuol sangue. Gridano: O ragno spargi la tua tela! […] E pieno di carne sii esaltato! […] Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più>>.

Parole tanto più crudeli e angosciose quanto più attuale si rivela la loro tragica verità. Una verità alla quale, oramai, tutti o quasi passivamente soggiacciamo, nell’indifferenza e nel silenzio colpevole, e che Cerciello, con le armi affilate del teatro di denuncia, e di conseguenza “politico”, ci sbatte in faccia come un sonoro manrovescio, nella speranza che un pur breve impeto di passione civile e di amor proprio, di pudore e di nausea, ci ridesti da quella narcosi/necrosi delle coscienze nella quale sembriamo crogiolarci, tronfi e narcisisticamente chiusi nel nostro Ego smisurato e sempre più imbellettato, senza <<uscire dal proprio guscio, la propria famiglia, la propria casetta rimpannucciata, il proprio gruppo di amici, il proprio lavoro…>>, come diranno, nelle prime scene dello spettacolo, i “Rinunciatari”.
Teatro “politico” e di denuncia, ma anche e soprattutto teatro di immagini che riecheggia, in più di un’occasione, la sintassi scenica di quello che, negli anni Settanta, fu detto “teatro immagine”, e di cui rielabora, in una chiave interpretativa originale, alcuni stilemi. La regia di Cerciello cura ogni dettaglio, ogni gesto con maniacale precisione, e anche il cromatismo, fortemente espressionista, ha una funzione simbolica attentamente calcolata; il linguaggio scenico, prevalentemente iconico e sonoro, tende a stabilire relazioni analogiche e metonimiche; mentre la scrittura drammaturgica, costruita attingendo ad alcune delle opere di Pier Paolo Pasolini – Petrolio, Bestemmia, Scritti Corsari, Le regole di un’illusione: Pasolini e il cinema, Il fiore delle mille e una notte – e utilizzando documenti e carteggi della Commissione Stragi, si svolge parallelamente al codice delle immagini, mettendo in moto, così, un procedimento teso ad appropriarsi dello spazio scenico, ridefinito nella sfera del visivo. La narrazione è sì affidata alla figura di un poeta – lo stesso Pasolini – ma anche, e forse in primo luogo, <<alla rivelazione epifanica di squarci di immagini, aggregate per continuità e dislocazione impreviste>>, come scrive Silvana Sinisi. La pittura e il cinema sembrano i principali ambiti di riferimento di questo spettacolo: e, se per il cinema, appaiono fin troppo evidenti le citazioni di film come Arancia meccanica, Uccellacci e uccellini, Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Il cielo sopra Berlino; per quanto riguarda la pittura, invece, alcune scene dello spettacolo sembrano provenire direttamente da dipinti di inquietante bellezza di Hieronymus Bosch, in cui i personaggi, ibridi umano-animaleschi – si pensi agli uccellacci-uccellini del III quadro/visione – compaiono in posizioni grottesche o oscene, come pure nelle scene di gruppo, che danno luogo a incisive caricature – e si consideri, a tal proposito, la prima visione e la sfilata dell’amore libero. C’è un chiaro intento satirico nei quadri del pittore fiammingo, ed è lo stesso che, nonostante la gravosità degli argomenti proposti e la rabbia montante che ne derivi, attraversa questo “viaggio tra le macerie della coscienza”, come Cerciello definisce, nel sottotitolo, Italietta.itali2
Un viaggio che ricalca la struttura del Satyricon di Petronio – afferma lo stesso regista – e che, come il Satyricon, raffigura una classe sociale – la piccola e media borghesia – che non sembra animata da alcuna ispirazione/aspirazione ideale; il tutto non senza ironia, ma alternando la buffoneria allo strazio, la tragedia alla farsa. Insomma, Italietta si regge, sul versante della scrittura scenica, su una struttura pluricodica molto articolata. Cerciello, facendo mostra di un raro eclettismo e di una profonda conoscenza dei diversi linguaggi artistici, spazia infatti con intelligenza dal cinema alla televisione, dalla pittura all’architettura, dal fumetto al circo, dalla letteratura alla musica; mentre, per quanto riguarda i codici “non estetici” – codici estetici sono, secondo una differenziazione operata dal De Marinis in Semiotica del Teatro, quelli precedentemente elencati – fa riferimento, alla storia, alla politica, alla sociologia, all’antropologia, alle questioni economiche e alla P2. Tutto ciò, Cerciello, tanto registicamente quanto drammaturgicamente – nello spettacolo in parola, come del resto già accadeva nel precedente Stanza 101, il testo drammaturgico è completamente in funzione del testo spettacolare – risolve ricorrendo ad un’intertestualità che fa riferimento a trasposizioni, implicite o esplicite, volontarie o involontarie – si pensi a quegli esempi di “intertestualità diacronica/sincronica involontaria” di cui parla Marco De Marinis ne L’analisi testuale dello spettacolo, citando Lotman e Francastel – di testi parziali di diversa provenienza, estetici e non estetici. E così, accanto ai già riferiti scritti pasoliniani e ai documenti e carteggi della Commissione Stragi – entrambi ripresi integralmente e poi adattati al contesto e al cotesto spettacolare; alle citazioni filmiche; all’involontaria concordanza con i quadri di Bosch; troviamo le canzonette degli anni 70/80, le canzoni di D’Alessio, la canzone Carabiniere di Nino D’Angelo, la canzone di Gaber Qualcuno era comunista; il riferimento implicito, ripreso da una poesia di Pasolini, all’Apocalisse di San Giovanni; parafrasi di messaggi pubblicitari; citazioni letterarie, il Satyricon di Petronio, il Faust di Goethe – o rimandi filosofici – il saggio di Elémire Zolla Eclissi dell’intellettuale, ad esempio. Il tutto a creare un magmatico e geniale mélange teatral-cinematografico, con tanto di piani lunghi, primi piani e piani sequenza.itali3
Fatte queste premesse, è facile intuire che lo spiazzamento continuo sembra essere l’unica vera regola interna ad uno spettacolo che, già nella collocazione degli spettatori su dodici sedie a rotelle – soltanto dodici spettatori per volta possono assistere alla rappresentazione – rivela la sua intenzionalità grottesca e la sua feroce valenza polemica. Quelle sedie a rotelle, infatti, sono sicuramente il simbolo dell’umiliante condizione di invalidità, etica ed intellettuale, cui l’uomo occidentale si è ridotto; ma anche l’equivalente scenico di quelle poltrone, comode e borghesi, seduti alle quali si è smarrito non solo l’uso del pensiero, ma anche la percezione del corpo e la stessa morale, come divorati da una psicosi collettiva. La psicosi provocata da quel delirio di immagini alle quali abbiamo deputato il compito di vivere al nostro posto, nelle quali abbiamo gettato la nostra sostanza umana: le immagini televisive. Seduto a quelle poltrone, ogni spettatore viene sospinto da un attore/infermiere – all’inizio gli attori vestono un camice bianco – all’interno di in mondo popolato di visioni oniriche che sembrano fuoriuscite ora da un film di David Linch ora proprio da uno show televisivo. Sono visioni che aggrediscono, infastidiscono, violentano – imbarazzante è la scena in cui attori e attrici si muovono in modo esplicitamente provocante, ciascuno posto di fronte ad un uomo o ad una donna, a seconda dei casi, ad imitare quelle movenze e quegli sguardi “assassini” cui assistiamo ogni giorno dagli schermi televisivi – o commuovono, indignano, feriscono la nostra dignità di persone. Per ottenere quest’effetto straniante, Cerciello, seguendo l’esempio del concetto spaziale di Grotowski e delle avanguardie americane, ha come sempre posto attori e spettatori in un rapporto diretto, giocando su una complessa orchestrazione delle reciproche relazioni fisiche che prevede l’utilizzo dell’attore non più come semplice interprete di un personaggio ma come “performer”. La relazione fisica che Cerciello ha voluto ottenere, però, non avrebbe potuto sortire l’effetto perturbante che ha sortito se non fosse stata sostenuta dalla bravura degli attori in scena. Diciassette ragazzi che hanno lavorato su partiture fisiche elaborate e fissate accuratamente, con assoluta precisione. Ne è emerso un lavoro su quella “drammaturgia del microcosmo” rappresentata dal corpo del singolo interprete, che si inserisce perfettamente nell’organica struttura scenica creata da Cerciello. Tra loro, comunque, vanno senz’altro menzionati Roberto Azzurro – lo scrittore-regista protagonista della storia – che dà al suo personaggio tutta la sofferta profondità etica che ne fa il vero antieroe in un mondo superficiale e corrotto; Paolo Coletta e Imma Villa, due divinità ciniche e faustiane disegnate con gran classe; ma soprattutto Marco Rescigno, che ha mostrato di possedere una potenza espressiva che gli ha permesso di connotare con cattiveria e sarcastica follia il personaggio del mafioso.
Ma ciò che trasforma questo spettacolo in un piccolo gioiello di poesia scenica, è senz’altro l’osmosi tra l’onirismo delle immagini e la parola poetica di Pasolini, che Cerciello utilizza drammaturgicamente per lanciare il suo atto d’accusa nei confronti di un mondo dominato da quel fascismo strisciante, incarnato dai neoimperialismi colonizzatori, dai venditori d’immagine alla Berlusconi, dai nuovi ricchi. Un atto d’accusa contro un potere omertoso, fondato sul complotto e la corruzione, che confina i poveri del mondo nella sudditanza e nell’emarginazione; ma anche contro una sinistra sempre più divisa e impotente. Il vangelo secondo Pasolini ci parla di oggi, della follia che sta sotto la democrazia del dominio petrolifero e delle armi, di Bush primo e di Bush secondo, come in uno sdoppiamento ulteriore della dinastia parentale. Ci parla dell’Italia prodotta da questo tipo di economia politica, che si è autodistrutta per continuarsi nel regime di Berlusconi. Sappiamo, dopo Tangentopoli, che il piano economico-politico, o per dirla proprio con lo scrittore, del <<fascismo putrefatto>> e della <<castrazione morale>>, convive con il <<meraviglioso impulso alle ricerche scientifiche e all’organizzazione economica>>. Dunque Cerciello, partendo da Petrolio e con l’incastro degli altri scritti pasoliniani, prende in esame tutta la storia d’Italia, dagli anni Settanta ad oggi, e ne fa il pretesto per un viaggio allegorico, compiuto dal protagonista, alla conquista illusoria del potere attraverso la santità.
Un “viaggio dell’assurdo”, che tocca tutte le tappe più nere della storia italiana degli ultimi anni: dalla strage di Piazza Fontana, ai golpe “fascisti”, dalla madre di tutte le tangenti, quella alla Enimont – con il viluppo dei fondi neri di Cefis – alla P2. E proprio il progetto piduista di Gelli e Sogno, sembra essersi realizzato, insinua Cerciello, attraverso la conquista del potere da parte della nuova destra berlusconiana. A tal proposito, splendido risulta, per vigore espressivo e ironia, il monologo recitato da Marco Rescigno, nei panni di un mafioso che esalta le figure di Sogno e Berlusconi. Quel Berlusconi che, per tutto lo spettacolo, sembra incombere per mezzo di una struttura a torre posta al centro della scena, a simbolizzare un’antenna televisiva e una trivella per pozzi petroliferi. Ma la cui forma ci fa venire in mente soprattutto un enorme fallo. Il fallo del potere che, in un modo o in un altro “fotte” i popoli che ad esso sono sottomessi.